Ho appena letto con grande attenzione e interesse il parere dello stimato Collega Mauro Grimoldi pubblicato su Repubblica.it sul tema dell’alienazione parentale.
Nell’articolo, giustamente, si sollevano dei dubbi sulla validità scientifica della PAS – Sindrome di Alienazione Parentale.
In effetti, sono il primo a criticare la teoria della PAS intesa come “sindrome”. Questa vecchia nozione ha dato la possibilità di porre l’attenzione sul fenomeno psicologico del rifiuto del figlio nei confronti di un genitore all’interno dei contenziosi civili di separazione.
Nel corso degli anni, la teoria della PAS è stata sviluppata e, attualmente, si parla di alienazione parentale, intesa come processo psicologico che coinvolge l’intero sistema della famiglia divisa.
La teoria della PAS è stata sviluppata: almeno per molti è cambiata, in effetti non per tutti. Ma questo è un altro discorso.
L’articolo continua:
La diffusione di pratiche squisitamente comportamentali come soluzione al problema dell’alienazione, tra le quali il collocamento inverso (cioè collocare il bambino presso il genitore che rifiuta) o il collocamento in comunità suonano spesso come delle punizioni, nel migliore dei casi come degli spauracchi; in tutti casi si tratta di atti intrinsecamente violenti ed evidentemente traumatogeni che rischiano di sortire effetti nocivi anche a lungo termine.
– quali sono i dati statistici a supporto di queste affermazioni?
– esistono statistiche che evidenzino “effetti nocivi anche a lungo termine” di un’inversione di collocamento del figlio o del suo trasferimento temporaneo in una struttura protetta a causa delle dinamiche di alienazione parentale?
– questi “effetti nocivi a lungo termine” sono il risultato del provvedimento giudiziario che il Collega scongiura (inversione collocamento/trasferimento struttura protetta) o potrebbero essere il risultato della violenza psicologica subita da figlio nell’ambito del suo rapporto simbiotico con il genitore dominante?
Eppure, quando ci troviamo di fronte ad un caso di maltrattamento in famiglia (ex art. 572 c.p.) nessuno si sognerebbe di sollevare la questione degli “effetti nocivi a lungo termine”, anche innanzi alla volontà di un figlio di rimanere in casa con i genitori: egli viene allontanato e trasferito in struttura protetta. Il più delle volte.
Stesso discorso per l’allontanamento del figlio dal nucleo familiare indigente: qualcuno si domanda se possono verificarsi “effetti nocivi a lungo termine” sul figlio?
Egli va allontanato senza esitazioni.
Ecco, il punto è questo.
L’alienazione parentale rappresenta una forma di violenza psicologica intrafamiliare. Non è una questione di esistenza della sindrome o non sindrome. E la violenza psicologica fa male e procura danni, anche invisibili.
Non basta sostenere che il bambino ha “un rapporto bellissimo” con il genitore dominante, va bene a scuola, fa calcio, danza e musica.
La criticità dell’alienazione parentale consiste nel non riuscire a “toccare con mano” la violenza psicologica perché è praticata in maniera subdola, non si vede, non è evidente.
Solo attraverso un’indagine approfondita, tramite CTU, è possibile far emergere le dinamiche altamente disfunzionali di questo fenomeno che procurano gravi danni sulla salute del figlio, come ad esempio l’instaurarsi del meccanismo di difesa della scissione psicologica.
Il Giudice, in ogni caso, è chiamato a far rispettare i diritti del figlio ex art. 337-ter co 1 c.c. e l’alienazione parentale è contenuta proprio in quest’articolo:
Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
L’alienazione parentale è, prima di tutto, un concetto giuridico. Qui la mia proposta di definizione.
Detto ciò, una precisazione. L’articolo sostiene che il figlio si identifica con il genitore percepito più debole. A mio avviso, nelle dinamiche di alienazione parentale, avviene il contrario: il figlio si coalizza con il genitore percepito più forte, quello c.d. “dominante”, colui che riesce a trasmettere più (apparente) sicurezza. Questione di punti di vista.
Infine, leggo quest’altro stralcio:
I meccanismi di identificazione tra bambini e genitori sono infatti complessi, ed è importante sottolineare che spesso avvengono senza che vi sia stata da parte degli adulti di riferimento alcuna intenzione consapevole. L’Ordine degli Psicologi della Lombardia ha recentemente istituito un gruppo di lavoro per riflettere su alcune delle situazioni più complesse che si stanno presentando in questo ambito. Contiamo che in un tempo estremamente breve possano essere varate alcune linee di indirizzo che possano aiutare i consulenti tecnici del giudice e delle parti a evitare i peggiori fraintendimenti che vengono segnalati nel corso di un’attività professionale particolarmente delicata e complessa.
1. A mio avviso non è sostenibile, da un punto di vista psicologico e psicoforense, che alcune dinamiche familiari avvengano senza “alcuna intenzione consapevole” da parte di un genitore. Questo è possibile sostenerlo per il figlio, non per il genitore.
2. Soluzioni, non linee guida: il Tribunale ha bisogno di proposte su come risolvere queste complesse situazioni. E un Ordine, a mio avviso, non ha il mandato giuridico di occuparsi di questo.

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