L’intervento sociale sul minorenne autore di reato dovrebbe parallelamente consistere anche in un supporto psicologico. Il rischio, nel caso contrario, è che il minore non possa approfondire ed elaborare le dinamiche che lo hanno portato a compiere quella azione deviante. Un intervento esclusivamente mirato alla progettazione della Messa alla Prova potrebbe rivelarsi non sufficiente con un alto rischio di recidiva, soprattutto per i minori che hanno compiuto reati che destano un certo allarme sociale.
Se il D.P.R. 448/88 è ispirato da ottimi principi teorici è, tuttavia, ravvisabile che nella pratica si verifichino alcuni rischi che potrebbero inficiare il percorso del minore all’interno del “sistema giustizia”.
Uno di essi è rappresentato dal fatto che il minore potrebbe non comprendere efficacemente l’opportunità di recupero che la Giustizia gli offre. Se l’intento del D.P.R. 448 è soprattutto la restituzione del minore ai contesti socializzativi primari, come avviene questo passaggio? In che modo il minore viene “restituito”? Quali cambiamenti ha prodotto il minore ed in che termini? Una MAP è sufficiente al cambiamento, il quale si scontra, invece, con l’immobilismo e la rigidità di un sistema familiare altamente disfunzionale con cui il minore ritornerà a confrontarsi?
Responsabilizzare giustamente il minore è un principio cardine del D.P.R., ma il rischio è lasciare il minorenne solo nella ri-definizione dei percorsi più idonei alla sperimentazione di responsabilità.
Infatti è necessaria un’attenzione particolare ai significati che l’intervento nella fase processuale può veicolare al minore e alla famiglia anche attraverso i ragionamenti impliciti dei vari operatori.
Chiarificare e stabilire una metodologia comune tra le varie figure che si interfacciano con il minorenne durante il processo penale appare premessa fondamentale per organizzare un contesto di azione efficace ed efficiente per l’intervento che dovrebbe, ove possibile, anche essere previsto nei contesti di appartenenza del minore.
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