Mi arrivano da più parti d’Italia provvedimenti giudiziali o proposte relativi alla risoluzione di casi di alienazione parentale. Dei più bizzarri.
Come quello, per fortuna poco diffuso, di trasferire il genitore dominante insieme al figlio in una comunità. Quando leggo questi provvedimenti, mi domando subito: qual è il senso?
Prima di tutto, è pacifico sostenere l’illegittimità dell’intervento coatto nei confronti del genitore dominante al quale non si può imporre di andare a vivere in una comunità.
Secondo aspetto, quello più rilevante. Qual è la ratio di un provvedimento così insensato? Davvero si può pensare che allontanare genitore dominante e figlio in una comunità possa risolvere le dinamiche disfunzionali dell’alienazione parentale? E come?
- forse si pensa che il problema dell’alienazione parentale sia la casa infestata da spiriti maligni piuttosto che il legame disfunzionale tra figlio e genitore dominante?
- arrivati in comunità, genitore e figlio vengono sottoposti all’elettroshok?
- il figlio viene accompagnato a fare gli improbabili incontri protetti con l’altro genitore mentre il genitore dominante rimane in comunità? E quale sarebbe la differenza tra casa e comunità? Il condizionamento diretto e indiretto continuerebbe inesorabile.
- la presenza costante di educatori all’interno della comunità garantisce la supervisione del rapporto tra figlio e genitore? E come? “Non devi condizionare tuo figlio, altrimenti oggi ti facciamo lavare i piatti!“
La realtà dei fatti è una sola: non si ha il coraggio di prendere il provvedimento (non “un provvedimento”) efficace, l’unico che nei casi più complessi e gravi potrebbe risultare efficace: l’allontanamento del figlio dal genitore dominante.
Paure e timori di assumersi la responsabilità di una decisione determinata, possono produrre soluzioni senza senso e fallimentari già in partenza.
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