1. L’Alienazione Parentale è attribuibile esclusivamente al genitore alienante. Nello specifico, al suo disturbo psichiatrico.
Direi di no. L’Alienazione Parentale è una condizione psicologica che si basa sulle dinamiche padre-madre-figlio. Sarebbe un errore grossolano concentrare l’attenzione psicoforense solo ed esclusivamente sul genitore alienante. Ognuno, con il proprio contributo, partecipa al fenomeno dell’Alienazione. Non può svilupparsi un’AP nel caso in cui sia presente un legame forte tra figlio e genitore. L’alienato diventa tale se mette in atto, anche involontariamente, atteggiamenti percepiti come passivi e arrendevoli dal figlio e dall’altro partner. Solitamente il genitore alienato è colui che concentra la sua attenzione sul conflitto con il partner, perdendo di vista la relazione con il figlio. Nella fase antecedente l’AP, atteggiamenti quali video e audio registrare le interazioni genitore-figlio durante le visite, al fine di produrre eventualmente il materiale digitale nel procedimento, non fanno altro che peggiorare la qualità di tale rapporto: il genitore alienato appare più attento a dimostrare il rifiuto del figlio, anziché “lavorare” sullo stesso.
2. Il figlio sviluppa una sorta di soggezione nei confronti del genitore, ma è tutta colpa dell’alienante che effettua un vero e proprio condizionamento nei suoi confronti.
Anche in questo caso, non è proprio corretta questa affermazione. Non vi sono “colpe” nell’Alienazione Parentale, ma vantaggi primari e secondari. Il vantaggio primario del genitore alienante è quello di voler ottenere la custodia del figlio a tutti i costi; quello secondario è utilizzare il figlio per i propri bisogni: uno su tutti, stare al centro dell’attenzione. Il genitore alienante utilizza il legame con il figlio anche per apparire. Del tipo “se lotto per la custodia di mio figlio, dimostro le mie capacità, tutti vedranno che sono un bravo genitore”.
In fondo, il genitore alienante crea un legame simbiotico con il figlio, ma come tutti i legami di dipendenza è basato sul concetto di utilizzazione “ti uso finché mi servi”. Al momento opportuno, il genitore alienante “scarica” il figlio. In pratica, tradisce il patto di lealtà.
3. E il figlio?
Il figlio triangolato nelle dinamiche di AP subisce il c.d. “conflitto di lealtà”. A chi devo essere “fedele” e leale? A chi devo dar retta? Mi affido al genitore percepito più forte. In questi casi, quello alienante. Ma a che prezzo.
Un prezzo salato (rifiutare il genitore alienato) che però garantisce al figlio, almeno temporaneamente, la percezione del genitore alienante come base sicura. Il figlio diventa aggressivo nei confronti del genitore più debole, reo di essere troppo passivo e poco combattivo. Ma finché c’è rabbia, c’è speranza. Da un punto di vista psicoforense è più “facile” lavorare sulla rabbia che sull’indifferenza.
4. Il figlio va curato presso uno specialista.
E’ necessario prevedere un intervento psicosociale che coinvolga tutti i membri coinvolti nelle dinamiche di AP. Lavorare solo ed esclusivamente sul bambino, potrebbe essere controproducente. Anche perché, implicitamente, si attribuirebbe a lui la responsabilità di quanto sta accadendo.
5. Quali proposte?
Il genitore alienante, in molti casi, mette in atto un vero e proprio maltrattamento nei confronti della prole. Nel momento in cui il Tribunale dovesse accertare la presenza di AP, bisognerebbe intervenire anche ad personam, cioè limitare il più possibile il raggio di azione del genitore alienante. E i Servizi Sociali incaricati dal Tribunale di seguire il caso devono (far) rispettare le eventuali prescrizioni. I SS non possono agire autonomamente in una direzione diversa (in alcuni casi opposta) a quella determinata dal decreto del Tribunale. E devono leggere tutte le carte del procedimento, inclusa, soprattutto, la CTU.
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