Cassazione civile, I sez., ordinanza n. 3576 pubblicata il 08/02/24, Pres. Genovese, Rel. Russo

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Il ricorrente deduce specificamente che in detto fascicolo si trovavano le relazioni dei servizi sociali che evidenziavano una serie di comportamenti pregiudizievoli tenuti dalla madre nei confronti del minore, evidenziando altresì che il ctu aveva indicato una serie di obiettivi di miglioramento delle competenze genitoriali in difetto delle quali si prospettava la possibile soluzione di collocare il minore in una casa famiglia; si tratta quindi di elementi rilevanti ai fini di accertare non già la sussistenza della dedotta “sindrome di alienazione parentale” quanto la sussistenza in concreto di specifici comportamenti pregiudizievoli per il minore, tematica sulla quale il giudice deve indagare anche d’ufficio; da qui la necessità di una lettura diretta di dette relazioni, nonché di valutare l’opportunità di richiedere ai servizi, investiti di un incarico a supporto della genitorialità, un aggiornamento sulle condizioni del minore. Ed infatti, pur se il giudice di merito ha utilizzato il termine “affidamento del minore ai servizi sociali”, si rende evidente che si tratta non già di una limitazione di responsabilità genitoriale, quanto di un mandato conferito con finalità di sostegno e vigilanza che, non incidendo per sottrazione sulla responsabilità genitoriale, non richiede, nella fase processuale che precede la sua adozione, la nomina di un curatore speciale, salvo che il giudice non ravvisi comunque, in concreto, un conflitto di interessi; esso richiede tuttavia che il provvedimento del giudice sia sufficientemente dettagliato sui compiti demandati e che siano definiti i tempi della loro attuazione, che devono essere il più rapidi possibili e adeguatamente minitorati.
9.1 – E’ opportuno qui precisare che al fine di modificare l’affidamento del minore o di adottare misure che ne comportino lo spostamento della residenza con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, non è sufficiente la diagnosi di una patologia, tantomeno di una diagnosi sulla quale non vi siano solide evidenze scientifiche; il giudice è tenuto ad accertare la veridicità dei comportamenti pregiudievoli per la minore, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, senza che sia decisivo il giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della patologia diagnosticata.

Non è infatti ammissibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, scissa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. Nel processo si giudicano i fatti e i comportamenti e pertanto è dall’osservazione e dall’analisi dei comportamenti che occorre muovere; la diagnosi, il cui rigore scientifico può e deve essere apprezzato dal giudice, peritus peritorum, può aiutare a comprendere le ragioni dei comportamenti e soprattutto a valutare se sono emendabili, ma non può da sola giustificare un giudizio – o pregiudizio – di non idoneità parentale a carico del genitore.

Per questa ragione nessuna diagnosi e nessuna terapia, anche se scientificamente fondate, possono essere recepite acriticamente dal giudice, ma devono essere inserite nel contesto della dinamica processuale, in cui viene in rilievo la posizione di tutte le persone aventi diritto alla tutela della relazione familiare.

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