Ho letto con grande interesse questo commento in risposta al documento dell’Ordine degli Psicologi della Calabria “Sulle prescrizioni psico-giudiziarie da parte dei tribunali nei casi di separazione, divorzio e affidamento dei figli“.

Spunti di riflessione importanti su un tema così complesso e delicato.

Qualche ulteriore riflessione.

L’articolo recita:

Il paradigma è semplice, essere genitori è un diritto, una facoltà libera, ma è anche un dovere di mantenere istruire ed educare i figli.

Il dovere di esercitare la funzione genitoriale ex art. 30 della Costituzione non significa necessariamente dover subire un trattamento psicologico coatto. Non è previsto nemmeno dallo stesso art. 30 della Costituzione.
Dovere non significa costringere. Dovere significa assumersi la responsabilità genitoriale.

Il Tribunale non può costringere il genitore a fare il genitore per mezzo di coercizioni di natura sanitaria.
Non a caso, l’art. 330 c.c. recita «Il giudice può pronunziare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio».

La salute è un diritto, non un dovere, se parliamo di genitori coinvolti nei contenziosi civili di separazione, divorzio e affidamento dei figli.
Qui risiede l’ambiguità e la confusione di fondo.

Il diritto in realtà non viene compresso, il genitore continua ad essere libero di scegliere se aderire o no a percorsi di acquisizione di competenze, ma alla sua libertà conseguono necessarie conseguenze di tutela sociale dei minori.

Affermare che il diritto all’autodeterminazione (nell’articolo “libertà individuale”) non viene compresso, ma allo stesso tempo paventare delle conseguenze sulla responsabilità genitoriale in caso di rifiuto del trattamento psicologico appare un paradosso: sei libero di scegliere, ma se ti rifiuti subirai delle conseguenze.
Quindi il genitore non è libero o è solo libero di aderire al trattamento psicologico?
Questo è un consenso informato viziato. Se è viziato, tutti i ragionamenti successivi decadono.

Si tratta, in sostanza, di costruire una domanda di intervento insieme alle parti, di stare dentro la relazione, di accompagnare chi abbiamo davanti nel riconoscimento di quanto accaduto nella relazione e che ha portato a richiedere l’intervento di terzi, siano avvocati o giudici. Questo tipo di intervento permetterebbe l’accesso a dimensioni emotive più profonde, abbassando le difese che inevitabilmente si alzano quando si ha di fronte qualcuno che “deve” valutare e giudicare un comportamento pregiudizievole, all’interno di un contesto che chiaramente rende più difficile il riconoscimento dei propri errori. In tal senso, l’obiettivo dell’intervento psicologico può essere quello di attivare risorse nel minore e negli adulti che lo circondano, proprio a partire dall’evento critico che li ha portati nel contesto giudiziario.

Il nodo è proprio questo: come si fa a costruire una domanda di intervento insieme alle parti se queste sentono di essere minacciate dal sistema giudiziario-sanitario? Se non aderisci al trattamento psicologico, subirai delle conseguenze.

L’equivoco di fondo è cercare di “curare” (cosa?) i genitori per mezzo di una minaccia: i genitori minacciano, gli Avvocati diffidano, i Giudici avvertono, i Servizi Sociali avvertono, il Servizio Sanitario avverte.
Quindi il bambino dovrebbe essere tutelato all’interno di un Sistema percepito come minaccioso. Come? Non è chiaro.

Il Tribunale non può curare i genitori, ma può emettere provvedimenti giudiziari per tutelare i diritti dei figli ex art. 337-ter comma 1 c.c.
Invece, assistiamo ad una costante ed eccessiva delega al Servizio Sanitario Nazionale per dirimere le questioni in tema di separazione, divorzio e affidamento dei figli.

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