Sui Disegni dei Bambini Come Rivelatori di Abuso Sessuale 
Articolo a cura di
Giovanni Battista Camerini – Neuropsichiatria Infantile e Psichiatra
Marco Pingitore – Psicologo-Psicoterapeuta, Criminologo
Giovanni Lopez – Psicologo-Psicoterapeuta, Psicologo Giuridico
I recenti fatti di cronaca provenienti da Caivano, alle porte di Napoli, rilanciano un tema molto sentito da opinione pubblica e mass media: la violenza sessuale sui bambini. Un argomento che provoca reazioni emotive intense che tuttavia possono produrre disinformazione ed equivoci, sia tra gli organi di informazione che, purtroppo, tra gli addetti ai lavori.
Relativamente ai tragici accadimenti si è fatto riferimento alle modalità di rilevazione di un abuso sessuale attraverso disegni e dichiarazioni testimoniali non propriamente corrispondenti alle buone prassi in Psicologia Forense.
Questo articolo ha l’obiettivo di chiarire alcuni aspetti psicoforensi in tema di violenza sessuale sui bambini, senza entrare nei particolari della vicenda di Caivano, ma prendendo spunto da essa per illustrare come in questo genere di casi divenga rischioso, soprattutto per la vittima coinvolta nel procedimento, assumere un atteggiamento verificazionista in fase d’indagine.
Sui disegni come rivelatori di abusi sessuali
E’ necessario chiarire sin da subito ed in modo inequivocabile che non esistono indicatori di abuso sessuale che si possano evincere con certezza dai disegni spontanei, né da test psicologici proiettivi.
Partiamo dai disegni. Vengono spesso utilizzati come strumento che facilita la comunicazione con i bambini. Nell’ambito clinico possono trovare un senso nell’instaurare una relazione con il bambino, specie se questi presenta difficoltà ad esprimersi verbalmente o a relazionarsi in genere. In ambito psicoforense e in particolar modo in quello Penale, si sconsiglia caldamente l’utilizzo di questo ausilio poiché potenzialmente induttivo e suggestivo e necessitante di una chiave interpretativa a forte connotazione soggettiva.
Un esempio pratico.
Un bambino effettua un disegno in una classe scolastica. Il disegno presenta ipotetici tratti riferibili a contenuti sessuali. Contestualmente il bambino sta vivendo un periodo di disagio, magari presentando un basso rendimento scolastico e/o isolamento sociale. L’inferenza è servita: il bambino ha subito un abuso sessuale. Parte la denuncia e le successive indagini alla ricerca di elementi che confermano gli abusi. Il minore viene a questo punto ascoltato da un esperto in Psicologia o Neuropsichiatria Infantile, magari insieme al Pubblico Ministero. Per aiutarlo a raccontare gli abusi, l’esperto gli rivolge una serie di domande suggestive (quelle che contengono già una risposta) ed induttive (quelle che inducono il bambino a ritenere che gli adulti conoscono già i fatti che egli dovrà riferire). Il ragionamento è tanto semplice quanto pericoloso: dobbiamo trovare il modo di far parlare il povero bambino, bisogna tutelarlo e metterlo a suo agio, utilizzando tutti i mezzi a lui conosciuti a quell’età.
Il disegno è uno di questi. Durante l’audizione, l’esperto dice al minore: “So che ti è capitato qualcosa di molto brutto. Immagino quanto possa essere difficile per te raccontarmi a voce quello che ti è capitato, ma non ti devi vergognare, io sono qui apposta per aiutarti a tirare fuori quello che hai dentro. Guarda, qui c’è un foglio, disegnami tutto quello che riesci”.
Dopo alcune sollecitazioni, il bambino inizia a disegnare un drago, se stesso e altre persone con gli scudi, magari utilizzando il colore nero, raccontando che questi soggetti combattono il drago cattivo.
Il drago cattivo deve essere sicuramente l’abusante da cui il bambino desidera essere difeso e difendersi. La domanda dell’intervistatore allora sorge spontanea: “Dimmi, il drago è cattivo come chi?, come il Sig. X, vero?”. Il bambino annuisce. Allora l’intervistatore: “Bene, bravo, che fa di brutto questo drago? Magari mette le mani addosso a questo bambino che hai disegnato, dimmi la verità, gli fa tante cose orribili… Hai disegnato il bimbo nudo, lo ha spogliato il drago?” E così via.
La prova cercata è acquisita, il bambino è stato bravo a raccontare tutti i terribili fatti, le indagini vanno avanti, l’abusante viene arrestato.
Questa è una riproposizione sintetica di un’audizione testimoniale di un minore che purtroppo non si discosta molto dalla realtà.
Tuttavia, ai fini probatori, la verità è che il minore non ha riferito di aver subito alcun abuso sessuale, ma ha prodotto solo un racconto con contenuti fantastici dietro sollecitazione di un esperto troppo intento a proiettare sul bambino e sul disegno sue convinzioni: devo aiutare il bambino a tirar fuori l’abuso.
I riferimenti a draghi e storie fantastiche non possono trovare alcun riscontro probatorio, tantomeno nella realtà, perché nel procedimento Penale non contano le interpretazioni, ma i fatti. E il minore, che dietro sollecitazione di un adulto riferisce che il drago ha spogliato il bambino, non narra un fatto, ma racconta una fantasia che assume le sembianze di un fatto (fattoide) solo a seguito delle interpretazioni dell’esperto che rimangono tutte da dimostrare.
Capita a volte che il silenzio del minore nelle audizioni protette venga interpretato come reticenza, vergogna, difficoltà a raccontare gli abusi sessuali subiti. Anzi, il silenzio è considerato un sintomo di disagio del minore nel rievocare “fatti traumatici”. Non si prende minimamente in considerazione che il bambino possa non avere nulla da raccontare perché la denuncia è infondata. Il suo silenzio viene anzi interrotto dalle interpretazioni suggestive e induttive dell’intervistatore: “Lo so che è difficile raccontare delle cose brutte, ma ora puoi dirmi tutto, non preoccuparti e non vergognarti, se mi racconti tutto, quella persona cattiva non potrà più farti niente di male. Dai, prova a farmi un disegno, così sarà più facile…”.
Un disegno può eventualmente lasciare ipotizzare un disagio. Ma genericamente, non specificamente. Non esiste in letteratura scientifica la certezza che un determinato contenuto, quand’anche di natura sessuale, sia direttamente correlabile ad una violenza subita. E’ come affermare, di contro, che la non presenza di quel contenuto corrisponda alla non presenza di violenza sessuale. Chi si assumerebbe la responsabilità di affermare ciò?
I disegni e i disagi psicofisici dell’età evolutiva in ambito psicoforense devono essere valutati sempre in maniera aspecifica e mai specifica, altrimenti si correrebbe il rischio di imbattersi in un errore metodologico grossolano, il verificazionismo appunto.
A tal proposito è molto chiara la Cassazione nel recepire e sintetizzare in sede giuridica gli assunti fondamentali della multicausalità e dell’equifinalità previsti dal modello della psicopatologia dello sviluppo: “Più in generale, costituisce un ragionamento circolare e non corretto ritenere che i sintomi siano prova dell’abuso e che l’abuso sia la spiegazione dei sintomi” (Cass. Pen., sez. III, 18.09.2007, n. 852).
Tuttavia, si riscontra ancora abbondantemente l’utilizzo di disegni come ausilio dell’esperto durante l’acquisizione delle sommarie informazioni testimoniali (SIT) e durante le audizioni del minore in incidente probatorio. E’ metodologicamente sbagliato che l’esperto impieghi il disegno come strumento di supporto all’escussione del minore poiché, banalmente, non sarà possibile stabilire se egli stia raccontando fatti realmente accaduti o realizzando una produzione fantastica, come sovente avviene nei disegni dei bambini. Inoltre, il minore potrebbe star reagendo alle suggestioni e sollecitazioni dell’intervistatore a disegnare ciò che gli sarebbe accaduto, alla stregua di un gioco o di un racconto immaginifico, dando però per scontato che qualcosa sicuramente sia accaduto.
Per di più, bambini molto piccoli non riescono il più delle volte a discriminare la realtà dalla fantasia, per cui il rischio è che divenga impossibile capire se si stiano riferendo alla situazione fantastica di gioco oppure a esperienze realmente vissute.
I test grafici proiettivi (disegno della figura umana, della famiglia, dell’albero, disegno libero, ecc.) non risultano utilizzabili per la specifica valutazione in tema di abuso sessuale, in quanto diversi studi dimostrano come non vi siano differenze significative tra disegni di minori sessualmente abusati e non. Altresì, i test proiettivi non sono stati tarati per l’utilizzo in ambito giuridico (Sartori et al., 2010). Come si legge da uno stralcio delle Linee Guida SINPIA in tema di abuso sul minore (2007), “Vi sono evidenze che i bambini i quali eseguono spontaneamente disegni contenenti genitali possono aver bisogno di successivi approfondimenti, dal momento che attualmente sembra esserci un’alta possibilità di falsa identificazione dell’abuso sessuale con l’utilizzo soltanto di questo indicatore”.
A riguardo di tutto ciò l’Art. 11 della Carta di Noto (2011) cita: “[…] I test e i disegni non sono utilizzabili per trarre conclusioni sulla veridicità dell’abuso. Non esistono, ad oggi, strumenti o costrutti psicologici che, sulla base di teorie accettate dalla comunità scientifica di riferimento, consentano di discriminare un racconto veritiero da uno non veritiero, così come non esistono segnali psicologici, emotivi o comportamentali attendibilmente assumibili come rivelatori o “indicatori”’ di una vittimizzazione sessuale o della sua esclusione.”
Per dimostrare l’utilità dei disegni come strumenti rivelatori di abuso sessuale bisognerebbe sottoporre ad un campione di esperti l’esame alla cieca di due gruppi di test, disegni e descrizioni di comportamenti, appartenenti uno a bambini per i quali sia stato accertato l’abuso e l’altro a bambini certamente non abusati. Laddove gli esperti, valutando indipendentemente l’uno dall’altro i materiali, dovessero attribuirli correttamente ai rispettivi autori, ciò dimostrerebbe “al di là di ogni ragionevole dubbio” la fondatezza scientifica e giuridica del ricorso a test, disegni e indicatori comportamentali quali “metodologia di validazione dell’abuso”.
Gli adulti “raccontano ricordando”, i bambini “ricordano raccontando”. Il recupero dei ricordi non avviene tramite una modalità riproduttiva, bensì ricostruttiva. Basterebbe questo concetto per comprende il rischio di eventuali influenze e suggestioni, interne ed esterne al bambino, che possano modificarne totalmente o parzialmente i ricordi. Nell’audizione del minore bisognerebbe favorire il più possibile i racconti liberi e ridurre al minimo le domande dirette, evitando completamente di porre domande suggestive che contengano già una risposta.
Qualche esempio. Per introdurre l’argomento abuso “Mi hai detto il motivo per cui ti trovi qui oggi, mi racconti?”.
Ancora, durante la narrazione “Mi hai appena detto che eravate a casa e che qui è successo, cosa è successo?”, invece di “eravate a casa, quindi il Sig. X cos’ha fatto?” oppure, altra domanda suggestiva da evitare, “mi hai raccontato che eravate a casa, è qui che ti ha toccato il Sig. X?”.
E’ buona prassi raccogliere la testimonianza del minore utilizzando il canale verbale, quindi evitando non solo le bambole anatomicamente corrette, ma anche altri ausili che implicano interpretazioni (ad esempio disegni) proprio perché tale ascolto deve avere una ‘tenuta’ poi in sede di processo (De Leo, Scali e Caso, 2005), rischiando che il bambino possa utilizzare tali ausili come simboli di persone, situazioni e vissuti emozionali, finendo per rendere indistinguibile il riferimento alla situazione immaginata rispetto a quella reale (Mazzoni, 2011). Bisognerebbe, dunque, rispettare una serie di procedure accreditate dalla comunità scientifica, come l’utilizzo di protocolli d’intervista adatti proprio per questo genere di casi (Camerini, Pingitore, Lopez, 2016). Il bravo intervistatore sa come interagire con il minore, anche senza disegni, bambole e altri strumenti fuorvianti.
Dopo una prima fase di familiarizzazione, in cui intervistatore e minore si conoscono parlando di argomenti neutri (“che scuola fai?”, “come sei venuto qui oggi?”), l’esperto utilizza uno tra i protocolli di intervista (Step-Wise Interview, Intervista Cognitiva, NICHD) accreditati dalla comunità scientifica. Essi prevedono la tecnica c.d. “ad imbuto”: si parte con domande generali e aperte (“raccontami..”), per soffermarsi nel dettaglio del racconto (“mi spieghi meglio…”). (Per approfondimenti sulle tecniche di raccolta della testimonianza).
Traumi e PTSD
Spesso nelle relazioni cliniche e in quelle peritali si rileva l’utilizzo scorretto della diagnosi di Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) in riferimento al minore (presunta) vittima di abusi sessuali.
Disagi psicologici ipotetici o reali vengono, in via del tutto arbitraria, collegati direttamente alla presenza di un “trauma da abuso sessuale”, quando la violenza ancora non è accertata giuridicamente. Gli esperti, tuttavia, si lanciano nel diagnosticare traumi e psicotraumi riuscendone addirittura a stabilire la causa nella violenza sessuale.
Quindi il ragionamento è il seguente: la denuncia di violenza sessuale porta a pensare che l’abuso sia certo e non da dimostrare. Non di rado, infatti, molti magistrati chiedono ai propri consulenti di accertare l’eventuale presenza di traumi correlabili alla violenza sessuale nel bambino vittima. Se l’esperto risponde in modo affermativo, implicitamente accerta la presenza dell’abuso. E viceversa.
Tuttavia il compito dei periti, in qualsiasi fase processuale, non è quello di accertare o meno la presenza di traumi e, eventualmente da valutare in sede Civile, ma di valutare solo ed esclusivamente l’idoneità a rendere testimonianza del bambino (ex art. 196 c.p.p.), concetto peraltro differente dalla “attendibilità” e dalla “credibilità” che attengono esclusivamente al Giudice.
Eppure ancora oggi nelle aule di Tribunale riscontriamo perizie demolite scientificamente e metodologicamente perché presuppongono di correlare un eventuale quadro sintomatico del minore, talvolta forzatamente inquadrato come PTSD, all’abuso sessuale, esprimendosi, di fatto, sulla certezza del reato.
Errori giudiziari e metodologici che rischiano paradossalmente di provocare danni sul minore coinvolto. A riguardo, Sandler e Fonagy (1997) sottolineano che, il coinvolgimento di un bambino in una denuncia infondata può comunque comportare esiti negativi sul suo funzionamento psicologico, sociali e adattivo sovrapponibili a quelli che avvengono nelle condizione di abuso realmente esperite.
L’art. 4.7 delle Linee Guida Nazionali – L’ascolto del minore testimone (2010) cita: “In caso di evento traumatico certo è possibile stabilire un nesso causale con determinati sintomi psichici e comportamentali, ma non è consentito procedere in senso inverso, identificando da sintomi l’esistenza di uno specifico evento traumatico. Non esistono sintomi clinici (e tanto meno dati psicodiagnostici) di per sé deponenti di uno specifico trauma; non è quindi corretto desumere l’effettivo accadimento di un determinato evento traumatico dalla loro presenza”.
Conclusioni
Spesso quando si tratta quest’argomento, l’emotività lascia il posto alla scientificità. E’ bene tenere presente che la tutela del minore passa sempre attraverso il rispetto di una metodologia scientificamente accreditata (Carta di Noto, 2011; Linee Guida Nazionali – L’ascolto del minore testimone, 2010; Protocollo di Venezia, 2007), non solo perché si rischia di far passare per vera una falsa denuncia (falso positivo), ma anche il contrario, non giungendo ad una sentenza di condanna a causa di vizi di forma e procedure errate (falso negativo).
Bibliografia
Camerini G.B., Pingitore M., Lopez G., 2016, L’audizione protetta della vittima vulnerabile nei casi di violenza sessuale, ilPenalista.it
De Leo G., Scali M., Caso L., 2005, La testimonianza, Bologna: il Mulino
Mazzoni G., 2011, Psicologia della testimonianza, Milano: Carocci
Sandler J., Fonagy P., 1997, Il recupero dei ricordi di abuso, Milano: FrancoAngeli
Stracciari A., Bianchi A., Sartori G. 2010, Neuropsicologia Forense, Bologna: il Mulino

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