La AICPF esprime alcune preoccupazioni per quanto riguarda la grande variabilità dei quesiti che vengono posti all’esperto in tema di minori testimoni e presunte vittime in procedimenti penali.
A fronte di un’omogeneità dei quesiti che il magistrato pone al perito per valutare l’imputabilità di un soggetto adulto (capacità di intendere e di volere al momento del fatto, pericolosità sociale e capacità di stare in giudizio), in merito ai quali sussiste un sostanziale consenso da parte della comunità scientifica di riferimento,  nell’ambito delle valutazioni inerenti il minore testimone gli esperti si trovano confrontati con un’ampia gamma di quesiti che variano a seconda del magistrato, del tribunale e dell’area geografica, senza che siano avvenuti i necessari preliminari chiarimenti riguardo gli ambiti di pertinenza entro i quali si deve svolgere l’indagine psicologica richiesta la quale per legge dovrebbe rivolgersi alla valutazione della capacità di rendere testimonianza.
Il concetto di capacità si rendere testimonianza è normato dall’art. 196 c.p.p. che recita:
1. Ogni persona ha la capacità di testimoniare.
2. Qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza, il giudice anche di ufficio può ordinare gli accertamenti opportuni con i mezzi consentiti dalla legge.
3. I risultati degli accertamenti che, a norma del comma 2, siano stati disposti prima dell’esame testimoniale non precludono l’assunzione della testimonianza.
Secondo la Cassazione Penale, Sez. III, sentenza n. 8962/1997, occorre procedere a:“l’accertamento della sua capacità a recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle ed esprimerle in una visione complessa, da considerare in relazione all’età, alle condizioni emozionali che regolano la sua relazione con il mondo esterno, alla qualità e alla natura dei rapporti familiari”.
Ancora la Cassazione Penale, Sez. III, nella sentenza n. 1752/2017 postula che: “quando la capacità a testimoniare del minore non sia stata accertata attraverso una perizia, o quando questa non sia stata svolta col rispetto di protocolli generalmente riconosciuti e condivisi dalle relative comunità scientifiche, allora la valutazione deve necessariamente fondarsi su altri oggettivi e sicuri elementi di prova o di riscontro ed è onere del giudice dare di ciò adeguata e puntuale motivazione”.
Il parere richiesto al perito non può quindi prescindere dal rispetto del patrimonio di conoscenze della comunità scientifica di riferimento, a garanzia delle leggi scientifiche di copertura in grado di suffragare la decisione giudiziaria.
A questo riguardo vanno considerate le linee guida sull’ascolto del minore testimone, elaborate nel 2010 dopo una consensus conference tra sei società scientifiche.
Sussiste quindi la necessità di porre precisi limiti ai quesiti posti all’esperto in sede peritale.
Si riscontrano invece spesso quesiti inerenti:
1) la “credibilità” (o “attendibilità”) del minore testimone;
2) l’”attendibilità” e la “validità” delle sue dichiarazioni;
3) la presenza di sintomi e/o di segnali  psicocomportamentali che possano essere ritenuti “indicatori” di un avvenuto abuso.
A tale riguardo si deve specificare che:
1) Eventuali quesiti rivolti a valutare la “credibilità” (o “attendibilità”) del teste risultano ambigui e confusivi.
Secondo il dizionario Treccani, la parola “credibilità” significa “Possibilità d’esser creduto: c. di un’affermazione, di una testimonianza; egli è un punto considerabile in ogni buona legislazione il determinare esattamente la c. dei testimoni (Beccaria). Con sign. e uso più recente (anche per influenza dell’ingl. credibility), la capacità che una persona, e spec. un uomo politico, una personalità del mondo finanziario, o anche un ente, una società, un governo, ha d’ispirare fiducia, di ottenere credito e riconoscimento: avere, acquistare, perdere credibilità”.
La Cassazione (VI Sez. Civile, Ordinanza del 21 maggio 2014, n. 11204)  ha precisato che la capacità di testimoniare “…differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende, come detto, dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. 30 marzo 2010, n. 7763). Il che significa che la valutazione va fatta, caso per caso, in concreto“.
Giova rammentare come si è espressa a riguardo la Cassazione Penale Sez. III, sentenza n. 45920/14: “…il procedimento valutativo delle risultanze processuali converge invero pur sempre verso un giudizio di attendibilità del teste; in questo senso deve sempre ricordarsi – in quanto sovente si tende a confondere i due piani valutativi – che mentre la verifica dell’idoneità mentale del teste, diretta ad accertare se questi sia stato nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in suo pregiudizio e sia in grado di riferire sugli stessi, senza che la sua testimonianza possa essere influenzata da eventuali alterazioni psichiche, è demandabile al perito, l’accertamento dell’attendibilità del teste, attraverso l’analisi della condotta dello stesso e dell’esistenza di riscontri esterni, deve formare oggetto del vaglio del giudice”.
In conclusione, l’ordinamento giuridico italiano fa riferimento alla figura del giudice come l’unico che può decidere sui fatti e sulla rilevanza dell’evidenza portata al processo ed è l’unico che può decidere, in base al proprio libero convincimento, se e in che misura utilizzare le prove portate dalle parti e i pareri dei periti.
L’esperto non può essere quindi chiamato ad esprimere alcun parere riguardo la credibilità/attendibilità del testimone, non essendo tale valutazione di natura clinica ed esulando quindi essa dalle competenze dello psicologo, dello psichiatra o del neuropsichiatra infantile.
2) L’esperto non può essere chiamato ad esprimere il suo parere riguardo l’attendibilità di un portato dichiarativo. Oggetto della valutazione è il testimone, non la sua testimonianza.
Le dichiarazioni di un solo testimone sono fonti di convincimento del giudice ogni qualvolta abbiano ad oggetto fatti di diretta cognizione, che siano specificatamente indicati e che risultino intrinsecamente attendibili. Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale (Cassazione Penale, Sez. II, n. 649/01) in sede penale le dichiarazioni della persona offesa possono e devono concorrere a formare il convincimento del giudice. Dunque, sul piano astratto le dichiarazioni rese dalla persona offesa hanno piena efficacia probatoria sempre che ne sia stata accertata l’intrinseca coerenza logica: il giudice deve compiere, riguardo alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, un esame particolarmente penetrante, rigoroso e a tal fine deve fare ricorso all’utilizzazione ed all’analisi di qualsiasi elemento di riscontro e di controllo ricavabile dal processo, dando adeguata e coerente giustificazione delle conclusioni alle quali è pervenuto.
Il controllo dell’attendibilità del portato dichiarativo prevede verifiche attraverso riscontri esterni ed indipendenti che il magistrato potrà effettuare sulla base degli elementi in suo possesso (corroborazione estrinseca): altre testimonianze, risultanze delle intercettazioni e dei sopralluoghi, accordo con i fatti ed i risultati già accertati.
Per quanto concerne invece la corroborazione intrinseca, ovvero la verifica delle caratteristiche delle dichiarazioni rese, l’indagine psicologica non consente di distinguere racconti veritieri e non veritieri, ovvero di esprimere pareri fondati riguardo la validità e la sincerità delle dichiarazioni rese. Gli studi riguardanti i comportamenti non verbali assunti dal teste, la concretezza dei resoconti (immagini chiare, vivide e precise) e la loro originalità, la coerenza e connessione del racconto, la descrizione di particolari della relazione vittima-aggressore, la capacità di interpretare l’evento in relazione alla situazione concreta o peculiare tra   vittima e aggressore, il riferirsi ad esperienze soggettive, il fare correzioni spontanee hanno fornito risultati incerti e contraddittori né i protocolli e gli strumenti di analisi della testimonianza (come la CBCA, il Reality Monitoring ed il CAIICS) consentono di formulare a partire da questi riscontri giudizi sufficientemente fondati in merito alla fonte dei ricordi riportati ed alla veridicità delle narrazioni rese, non avendo sinora ricevuto alcuna validazione sul piano scientifico.
Il perito potrà essere chiamato ad esprimersi unicamente in un ambito più ristretto, ovvero riguardo la qualità/accuratezza complessiva delle dichiarazioni testimoniali in tema di coerenza intrinseca del racconto, la sua coerenza con le leggi della fisica, l’eventuale presenza di produzioni di natura confabulatoria.
Il perito dovrà, inoltre, evitare di esprimere pareri sulle capacità testimoniali del soggetto sulla base della maggiore o minore accuratezza delle dichiarazioni da lui rese. Non si dovrebbe quindi usare come elementi di determinazione delle capacità del testimone le stesse dichiarazioni da questo già rese, altrimenti si rischia di ricadere in una sorta di circulus in demostrando in cui la premessa giustifica la conclusione e viceversa (l’idoneità che ammanta di credibilità le dichiarazioni), cosa che è epistemologicamente errata. In una valutazione sulla idoneità a testimoniare l’esperto può quindi prendere in considerazione anche eventuali dichiarazioni del minore, ma esse (tanto più nei casi in cui l’accertamento della idoneità venga richiesto dopo l’assunzione della testimonianza) non dovrebbero essere valutate nel loro contenuto narrativo (ossia nella relazione con i fatti in oggetto di valutazione) ma solo nei loro aspetti psicologici prescindenti dai contenuti dichiarativi (es. il livello di attenzione; gli aspetti emotivi; il linguaggio; etc…). Dichiarazioni che quindi potrebbero esprimere un loro valore probatorio anche qualora (non deve interessare al perito) totalmente menzognere.
3) La letteratura specialistica ha più volte ribadito come non esista alcuna manifestazione comportamentale che possa essere considerata caratteristica di una specifica vittimizzazione. Le evidenze scientifiche non consentono di identificare quadri clinici riconducibili ad una definita esperienza di vittimizzazione, né ritenere alcun sintomo prova o indicatore di uno specifico traumatismo. In definitiva non è scientificamente corretto inferire dalla esistenza di sintomi psichici e/o comportamentali, pur rigorosamente accertati, la sussistenza di un definito  evento traumatico, né attribuire a singoli segni psicodiagnostici, in special modo se derivanti da interpretazioni simboliche, il ruolo di indicatori di specifiche esperienze traumatiche o di vittimizzazione.
Il costrutto di “indicatore di abuso” non è sorretto da alcuna copertura scientifica; l’esperto dovrebbe quindi astenersi, sulla base del patrimonio di conoscenze accreditate dalla sua disciplina, dal proporre interpretazioni del nesso di causalità esistente tra le condotte e le manifestazioni psicocomportamentali del teste e gli eventi che le avrebbero determinate, risultando tali correlazioni troppo soggettive ed arbitrarie e non sorrette dalle sufficienti e necessarie evidenze. Non è lecito sul piano scientifico attribuire a sintomi psichici un’origine ed una natura post-traumatiche qualora non sia stato prioritariamente accertato un evento traumatico. Parimenti, i quesiti posti all’esperto non dovrebbero includere questi ambiti di indagine. “Più in generale, costituisce un ragionamento circolare e non corretto ritenere che i sintomi siano prova dell’abuso e che l’abuso sia la spiegazione dei sintomi” (sentenza Cassazione Penale, sez. III, n. 852/2007);
La inosservanza di queste cautele può comportare criticità  per quanto riguarda i percorsi valutativi giudiziari ed i relativi accertamenti rivolti alla verità processuale ed i profili di responsabilità professionale del perito.
– In merito al primo punto si rammentano le sentenze Cozzini e Cantore: ‘‘Gli esperti dovranno essere chiamati non solo ad esprimere il loro personale seppur qualificato giudizio, ma anche a delineare lo scenario degli studi ed a fornire elementi che consentano al giudice di comprendere se, ponderate le diverse rappresentazioni scientifiche del problema, possa pervenirsi ad una ‘metateoria’ in grado di fondare affidabilmente la ricostruzione. Di tale complessa indagine il giudice e` infine chiamato a dar conto in motivazione, esplicitando le informazioni scientifiche disponibili e fornendo razionale spiegazione, in modo completo e comprensibile a tutti, dell’apprezzamento compiuto’’ (Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza n. 43786/2010); “Non si tratta tanto di comprendere quale sia il pur qualificato punto di vista del singolo studioso, quanto piuttosto di definire, ben più ampiamente, quale sia lo stato complessivo delle conoscenze accreditate. Pertanto per valutare l’attendibilità di una tesi occorre esaminare gli studi che la sorreggono; l’ampiezza, la rigorosità`, l’oggettività delle ricerche; il grado di consenso che l’elaborazione teorica raccoglie nella comunità scientifica. Inoltre è di preminente rilievo l’identità`, l’autorità indiscussa, l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove” (Cassazione Penale, Sez. IV, sentenza n. 268/2913). Il giudizio in sede processuale non può prescindere dal grado di validità scientifica dei contributi che il perito pone a fondamento delle sue affermazioni.
– Il perito può a sua volta essere chiamato a rendere conto dei pareri espressi secondo quanto stabiliscono i codici deontologici. Il Codice Deontologico degli Psicologi così recita all’art. 3: “Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed efficace. Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale. Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette conseguenze”; all’art. 5: “Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione e aggiornamento professionale, con particolare riguardo ai settori nei quali opera. La violazione dell’obbligo di formazione continua, determina un illecito disciplinare che è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall’ordinamento professionale. Riconosce i limiti della propria competenza e usa, pertanto solo strumenti teorico – pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate” e all’art. 37: “Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze. Qualora l’interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l’invio ad altro collega o ad altro professionista”. Analogamente, il Codice Deontologico dei Medici così recita all’art. 16: “Il medico ha l’obbligo dell’aggiornamento e della formazione professionale permanente, onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico scientifico” e all’art. 18: “Il medico deve garantire impegno e competenza professionale, non assumendo obblighi che non sia in condizione di soddisfare. Egli deve affrontare i problemi diagnostici con il massimo scrupolo, dedicandovi il tempo necessario per un approfondito colloquio e per un adeguato esame obiettivo, avvalendosi delle indagini ritenute necessarie. Nel rilasciare le prescrizioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative deve fornire, in termini comprensibili e documentati, tutte le idonee informazioni e verificarne, per quanto possibile, la corretta esecuzione. Il medico che si trovi di fronte a situazioni cliniche, alle quali non sia in grado di provvedere efficacemente, deve indicare al paziente le specifiche competenze necessarie al caso in esame”.
Per tali ragioni risulterebbe opportuno pervenire ad una maggiore omogeneizzazione dei quesiti posti all’esperto in questo ambito rimanendo rigorosamente all’interno dei dettami dell’art. 196 c.p.p.: “idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza”, distinguendo la idoneità “generica” e la idoneità “specifica”.
– La prima  corrisponde alle competenze funzionali di base quali il livello intellettivo, la memoria autobiografica, l’attenzione, le abilità di comprensione e di espressione linguistica, la suggestionabilita’, la capacità di monitorare la fonte delle informazioni, la discriminazione tra realtà e fantasia e tra verosimile e non verosimile, oltre al livello di maturità psico-affettiva e l’assetto della personalità (disturbi o modalità di funzionamento in grado di compromettere l’esame di realtà).
– La seconda corrisponde da un lato all’abilità di organizzare e riportare un racconto in relazione alla complessità narrativa e semantica delle tematiche in discussione (distanza temporale dagli eventi, fase evolutiva in cui gli eventi si sono verificati, capacità di attribuire significati ai comportamenti ed alle azioni altrui), dall’altro all’eventuale presenza di influenze suggestive, interne o esterne, che possono avere agito (motivazioni interne al soggetto, conversazioni con interlocutori in grado di esercitare influenze).
Seppur non detto dalla norma, la idoneità a testimoniare è una valutazione legata al fatto in oggetto, come per esempio la valutazione della imputabilità non è mai fatta in astratto ma sempre legata alla particolare tipologia di comportamento del quale si vuole giudicare il tasso di possibile autodeterminazione (la capacità, appunto di intendere e di volere legata al fatto e al momento del fatto). In analogia con l’imputabilità possiamo dunque affermare che la valutazione utile al giudice è sempre quella “specifica”, ossia articolata alle specificità del caso concreto. La capacità generica è piuttosto un presupposto concettuale di quella specifica, una condizione necessaria ma non sufficiente.
La AICPF auspica quindi che si possa pervenire ad una standardizzazione del quesito posto all’esperto riguardo il minore testimone tenendo conto delle leggi di copertura che consentono all’esperto stesso di esprimere pareri scientificamente fondati, comunque rimanendo negli ambiti previsti dall’art. 196 c.p.p..
Il quesito potrebbe essere posto nei seguenti termini :
“Dica il perito quale sia la idoneità testimoniale generica e specifica del minore”.
Qualora il quesito, nei casi in cui la perizia si svolga sugli atti, includa anche una valutazione delle testimonianze rese, esso potrà così essere posto:
“Valuti il perito gli aspetti qualitativi dei resoconti resi in punto dei fatti in sede giudiziaria e l’adeguatezza della intervista”.

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